It is time for European unity not national division.

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FOR A EUROPEAN CONSTITUENT MOMENT

 

Appeal to the European Council to call a Convention to reform the EU

 

All European citizens are invited to sign this appeal that just in a few days of confidential circulation was signed by more than 150 personalities from academia, civil society, business community, of different political views and from all over the EU, and even outside, some of them with institutional experience.

 

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ue a ai

[EPA-EFE/STEPHANIE LECOCQ / POOL]

L’Unione Europea sta cercando un modo per far progredire l’intelligenza artificiale in ogni ambito, nel frattempo delinea nuove regole giuridiche e sistemi di certificazione per garantire la qualità dell’intelligenza artificiale.

Il 19 febbraio con l’approvazione di una serie di documenti la Commissione europea cerca di rafforzare i propri punti di forza: i settori produttivi tipici e forti e i diritti fondamentali.

Una parte significativa riguarda il “nuovo ordinamento comunitario” le nuove regole che gli operatori dovranno rispettare se le nuove tecnologie saranno ad “alto rischio” per i valori dell’UE.

Il 28 febbraio 2020 a Roma viene firmata la “Call for Al Ethics”, la Carta firmata dall’accademia per la vita, i vertici di Microsoft, di IBM, con la partecipazione del parlamento europeo e della FAO.

Nella Carta sono indicati i sei principi che gli algoritmi devono rispettare: Imparzialità, Affidabilità, Sicurezza, Privacy.

Negli ultimi tre anni, i finanziamenti dell’UE per la ricerca e l’innovazione per l’IA sono aumentati a 1,5 miliardi di euro, quindi un aumento del 70% rispetto al periodo precedente. Però gli investimenti in ricerca e innovazione in Europa rappresentano ancora una “frazione” degli investimenti pubblici e privati in altre regioni del mondo. Nel 2016 in Europea sono stati investiti circa 3,2 miliardi di euro in AI, rispetto a circa 12,1 miliardi in Nord America e 6,5 miliardi in Asia.

Il progetto coordinato sull’IA ( COM(2018) 795) elaborato con gli Stati membri si sta dimostrando un buon punto di partenza per costruire una più stretta cooperazione sull’IA in Europa e creare sinergie per massimizzare gli investimenti nella catena del valore dell’IA. Ma ora sul piatto, la Commissione ha messo 20 miliardi di euro/anno che andranno a foraggiare il Digital Europe Programme, Horizon Europe e i fondi strutturali.

Se la riforma dell’ordinamento è elemento centrale della costruzione dell’ecosistema di “fiducia”, altre azioni riguardano la costruzione dell’ecosistema di eccellenza di AI, proposte dalla Commissione Ue. Tra queste: la creazione di un Innovation hub in ogni paese, la valorizzazione del network tra i centri di eccellenza diricerca e sviluppo a livello Ue nei settori “forti” della economia del vecchio continente (industria, salute, trasporti, energia, agrifood, silvicoltura, osservazione spazio); il rafforzamento indispensabile delle skills, tramite l’aggiornamento del Digital education Action Plan e la predisposizione di linee guida etiche da comprovare nei curricula degli sviluppatori; il trasferimento delle conoscenze digitali (uso dei dati,, tecniche basate su AI learning e predictive analytics) alle pmi; l’accesso per pmi e start-up ai finanziamenti per adattare i loro processi o innovare utilizzando l’IA. Basandosi sul prossimo fondo di investimento pilota di € 100 milioni in AI e blockchain, la Commissione prevede di ampliare ulteriormente i finanziamenti in AI nell’ambito di InvestEU.

 

D. MEINI

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 La tragedia della guerra silenziosa in Yemen

[EPA-EFE/YAHYA ARHAB]

In Yemen è in corso una guerra sanguinosa dal 2015 e, come viene descritta dall'O.N.U ( organizzazione delle nazioni unite), “il peggior disastro umanitario causato dall’uomo“. Spagna e Croazia coinvolte nella vendita di armi, le istituzioni non intervengono e l'opinione pubblica alza la voce.

Le origini della guerra

La cruenta guerra civile scoppiò a causa del fallimento di una transizione politica che avrebbe dovuto portare stabilità nel paese a seguito di una rivolta della Primavera araba, che aveva costretto il suo presidente autoritario, Ali Abdullah Saleh, a consegnare il potere al suo vice Abdrabbuh Mansour Hadi, tuttora sostenuto da Stati Uniti d'America, Europa e dalla maggior parte degli stati del medio oriente. La guerra va avanti ormai da 5 anni , da quando i ribelli Houthi, appoggiati dall’Iran, hanno conquistato gran parte del paese, inclusa la capitale Sana’a. La coalizione guidata dall’Arabia Saudita combatte i ribelli dal 2015 e sostiene il governo di Hadi.

Le bombe ed il Coronavirus

Almeno 10mila persone, due terzi dei quali civili, sono stati uccisi negli anni della guerra in Yemen e 55mila sono rimasti feriti, secondo i dati diffusi dalle Nazioni Unite e più di 22 milioni di persone sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari. In aggiunta, il virus Covid-19 non ha aiutato di certo a migliorare la situazione: come spiega Caroline Seguin, coordinatrice di Medici senza Frontiere in Yemen, quello che stanno vedendo nel loro centro è solo la punta dell’iceberg in termini di numero di persone contagiate e in fin di vita nella città. I pazienti arrivano troppo tardi per essere salvati e sanno che molte più persone non vengono affatto e stanno morendo nelle loro case. Il centro di trattamento registra un tasso di mortalità equivalente alle unità di terapia intensiva in Europa e negli Stati Uniti, ma quello di Aden non è un ospedale ben attrezzato.

Anche l'Europa è responsabile...

Una tragedia questa che da anni si sta consumando tra il silenzio assordante dell’Occidente e delle Nazioni Unite. I media hanno iniziato a parlare della guerra nello Yemen soltanto dopo l’attacco a opera di alcuni droni a dei pozzi sauditi, che ha portato ad un elevato aumento del prezzo del petrolio. Tra i responsabili di questa tragedia umanitaria vi è anche l'Europa, in particolare la Croazia. Secondo i dati raccolti dall'ONU, nel periodo compreso tra il 2014 e il 2016, l’Arabia Saudita ha importato dalla Croazia armi per un valore complessivo di 124 milioni di dollari. Con il tempo la questione dell’esportazione di armi verso l’Arabia Saudita ha inizato ad attirare l'attenzione dei giornalisti che hanno iniziato ad analizzare dei documenti ufficali dell' UE, dai quali è emerso che la Croazia è tra i principali paesi UE esportatori di armi. È importante anche sottolineare il fatto che l’ammontare delle risorse fornite dall’Ue per gli aiuti umanitari in Yemen è nettamente inferiore rispetto al valore complessivo delle armi vendute dai paesi europei all’Arabia Saudita: solo le autorizzazioni all’esportazione di armamenti verso l’Arabia Saudita rilasciate dal governo britannico a partire dal 2013 ammontano a circa 7,25 miliardi di euro. Anche altri paesi europei, come quello spagnolo, sono coinvolti: l’attuale sindaco di Cadice, José María González, nel 2015 si era impegnato per la sospensione dei rapporti commerciali con l’Arabia Saudita, ma con il passare del tempo ha cambiato “rotta”, appoggiando un accordo stipulato tra il governo spagnolo e l’Arabia Saudita per la costruzione di navi militari nel cantiere navale di Cadice. Anche il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha appoggiato questo accordo. Mentre gli europarlamentari del suo partito (partito socialista operaio spagnolo) votavano per la sospensione del rifornimento militare all’Arabia Saudita, Sánchez autorizzava nuovamente l’esportazione di bombe a Riad.

Come i paesi europei stanno reagendo alla guerra in Yemen

In alcuni paesi europei la società civile ha iniziato ad alzare la voce contro la guerra in Yemen. Nel marzo 2019 i Londinesi hanno protestato contro la vendita di armi all’Arabia Saudita che scondo loro, viola le norme del diritto internazionale ricordando che dall’inizio della guerra in Yemen sono stati uccisi migliaia di civili. .In Bosnia Erzegovina sono state organizzate diverse raccolte di aiuti umanitari destinati alla popolazione yemenita, mentre i lavoratori del porto di Genova si sono rifiutati di caricare il materiale militare su una nave saudita, in segno di protesta contro la guerra in Yemen. Gli operai portuali hanno iniziato uno sciopero, rifiutandosi di lavorare finché la nave non avesse lasciato il porto. La nave era partita carica di armi da un porto belga e, prima di arrivare a Genova, le era stato impedito di attraccare in un porto francese per caricare altre armi.In Croazia, al contrario, negli ultimi quattro anni non sono state organizzate raccolte di aiuti umanitari né proteste contro la guerra in Yemen e contro il coinvolgimento del paese in questo conflitto

 

A. M. DIOP

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Conte il MES e il futuro deglitaliani [EPA-EFE

Rinunciare ai fondi del MES per la gestione dell’emergenza sanitaria è una pessima idea, lo abbiamo già detto più volte. Si tratta di un prestito a tasso negativo pari al 2% del PIL italiano; senza condizioni, a parte essere destinato a spese ed infrastrutture sanitarie, sul cui monitoraggio la UE sarebbe (giustamente!) inflessibile.

Risorse che dovremmo comunque reperire (se vogliamo attrezzarci ad una risposta più efficiente alle emergenze) sul mercato dei capitali, a costi che oggi si aggirano intorno al 1,7%. Un risparmio per il contribuente italiano pari ad oltre 600 milioni ogni anno; gettato al vento. Se il governo rappresenta gl’interessi dei cittadini, non è comprensibile la scelta di rinunciare a quelle risorse.

Il MES non è più il Fondo Salva-Stati che ha imposto alla Grecia una ricetta lacrime e sangue; sta cercando di cambiare, già dal 2018. La Commissione ha provato a trasformarlo in un Fondo Monetario Europeo, una specie di clone regionale del Fondo Monetario Internazionale ma ricondotto sotto le logiche e regole dell’Unione, non dei governi (che sono ad oggi “proprietari” del MES). Poi il Consiglio ha provato a trasformarlo in un fondo di garanzia per il Single Resolution Fund dell’Unione Bancaria. Finchè il Covid-19 ha colto tutti di sorpresa e congelato ogni dibattito sulla sua riforma. Insomma, il MES è disperatamente in cerca di una nuova identità. E l’aver pensato di utilizzarlo per fronteggiare l’emergenza pandemica ne è l’ennesima dimostrazione.

Allo stesso tempo, mi pare evidente che sia oggi necessario ed urgente ripensare, ricostruire le comunità locali, i grandi sistemi urbani, attrezzandoli per una maggiore resilienza agli shock, siano essi emergenze sanitarie, disastri naturali e dissesti del territorio; ma anche ad affrontare le sfide future (un futuro che, per la verità, è già arrivato): nuove dinamiche demografiche e sociali, che richiedono infrastrutture sociali e culturali nuove e soprattutto innovative; nuove esigenze di formazione e crescita del capitale umano; sistemi integrati di trasporto pubblico; innovativi sistemi di gestione dell’energia e dei rifiuti, orientati alla sostenibilità. Insomma, serve mettere le comunità in grado di ripensare la pianificazione economica, urbanistica, sociale, sanitaria del territorio.

Il MES potrebbe rivelarsi cruciale in questa trasformazione. Per ora ha funzionato a regime ridotto, con un capitale versato di soli 80 miliardi su oltre 700 previsti. E con quelle poche risorse ha mobilitato fondi che hanno permesso di salvare la Grecia dal dissesto finanziario, oltre che aiutare Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro. Immaginate cosa potrebbe fare se richiamasse l’intero capitale ed emettesse sul mercato titoli, chiamiamoli Sustainable Bonds, per oltre 4.000 miliardi (una leva più che ragionevole), da mettere a disposizione delle comunità locali che mostrino maggiore capacità innovativa di pianificazione.

Ecco, per una battaglia di questa portata e natura avrebbe senso rinunciare oggi ai fondi del MES, per avviarne una trasformazione profonda, che lo metta al servizio della crescita e della stabilità del sistema sociale ed economico europeo. In questo momento storico di profonde trasformazioni, in cui pure un’Europa fino a ieri lenta e frammentata è riuscita a mostrarsi reattiva e solidale (nonostante decisioni collettive adottate ancora in gran parte all’unanimità) mobilitando risorse per 3 trilioni di euro fra iniezioni monetarie e fiscali, perché non scommettere anche sulla trasformazione del MES? Perché non rilanciare? Perché non farne attore della ripresa?

Questa, ci pare, è la strada da percorrere per Conte se, come sembra ormai evidente, non sarà in grado di imporre una scelta che parte della sua maggioranza non vuole, col rischio di mettere a repentaglio la tenuta del governo. Probabilmente l’unica alternativa rimasta a sua disposizione, se non vuole perdere la faccia (e il consenso) con l’altra metà del paese, che non capisce perché gettare al vento le risorse del MES.

A meno che, naturalmente, si creda di non poter restituire quei fondi, immaginando che non ci sarà alcuna ripresa; e che si stia semplicemente aspettando di poter scaricare sul prossimo governo un default già all’orizzonte. O che si speri di poter, per l’ennesima volta, fare i furbi con le risorse europee, dirotttandole per altri scopi; e non abbiamo quindi il coraggio di attingere a fondi sulla destinazione dei quali ci verrà chiesto conto. Oppure, e sarebbe lo scenario peggiore, che non si abbia già in mente una patrimoniale; o un bel prelievo forzoso sui conti correnti e i depositi bancari. Che metterebbero la pietra tombale sulla fiducia degli italiani nelle loro istituzioni, sulle prospettive di consumo e investimento; e sulle poche opportunità di ripresa che ancora oggi il nostro paese ha di fronte.

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fine degli stati generali adesso viene il bello

[EPA-EFE FABIO FRUSTACI]

Non credo che il governo abbia comunicato nella maniera più efficace l’idea degli Stati Generali dell’Economia, tenutisi a Villa Pamphili nei giorni scorsi. Eppure era buona: riunire intorno ad un tavolo i principali attori economici, sociali e politici – italiani ed europei – per riflettere sul futuro dell’economia italiana. Perché, visto che la maggior parte delle risorse arriveranno dalla UE, mi pare il minimo confrontarsi anche con i suoi rappresentanti istituzionali.

Non che ci fosse molto su cui riflettere, per la verità. Più che altro servirebbe il coraggio politico di affrontare i nodi irrisolti del nostro ritardo strutturale nei confronti delle altre economie europee e mondiali. Peraltro già ampiamente messi in evidenza dalle Policy Recommendations del Consiglio Europeo dell’anno scorso, che avremmo dovuto semplicemente incollare nel Documento di Economia e Finanza; ma l’abbiamo già scritto e non vogliamo ripeterci, anche se magari repetita juvant, visto che sono ancora ad oggi indicazioni completamente inascoltate.

Si tratta di ridurre il divario di produttività del paese attraverso moderne ed efficienti infrastrutture di trasporto, di comunicazione (digitale), sociali e culturali; di accrescere la resilienza delle comunità locali agli shock, sia in termini di tutela attiva del territorio, sia di gestione delle emergenze sanitarie e di sviluppo di reti locali virtuose a fini di promozione sociale ed economica; migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione in un’ottica di raggiungimento dei risultati, non di timbratura del cartellino (vediamo se l’esperienza dello smart working saprà passare dallo stadio emergenziale ad uno strutturale più ampio ed organizzato); crescita del capitale umano, i tutte le sue fasi, dagli asili nido all’Università ed anche durante la vita professionale.

E poi privilegiare gl’investimenti (e per loro tramite l’occupazione), piuttosto che il sostegno al reddito ed ai consumi. In questa ottica, la riduzione delle aliquote IVA, pur presentando un certo fascino di fronte al grande pubblico, rischia di essere un boomerang in termini di spesa: difficilmente i prezzi si modificheranno al ribasso in reazione all’abbassamento dell’Iva… più facile che aumentino i margini di profitto. Il che naturalmente va benissimo… basta avere un’idea precisa di quali nessi causali e quali categorie distributive vanno privilegiate per consolidare la ripartenza.

Così come, in un’ottica emergenziale, è ovvio e doveroso puntare sugli ammortizzatori sociali. Che però non possono essere utilizzati all’infinito; non si assicura la ripresa con i sussidi, che devono essere solo una manovra tampone per fronteggiare la carenza di liquidità. Occorre far ripartire il lavoro: promuovendo una transizione delle produzioni italiane verso la frontiera delle possibilità produttive, verso l’innovazione; ed allo stesso tempo assicurare appunto investimenti nei settori ad alta intensità di lavoro (anche per questo le infrastrutture sono decisive).

Per tutto questo sono centrali gl’investimenti. Sia quelli pubblici, sapientemente orientati verso settori strategici, sia quelli privati. Un ruolo chiave, a questo proposito, è quello della classe imprenditoriale. Non delle corporazioni in cerca di briciole (più o meno grosse) di sovvenzione pubblica per tenere in vita attività ormai fuori dal mercato, ma per agevolare la trasformazione ed il riposizionamento strategico ed organizzativo di imprese con buone prospettive di crescita.

E poi esiste un fattore-tempo. A fronte di una perdita di oltre il 10% del Pil, si preannunciano in arrivo dall’Europa risorse per oltre il 10% del Pil. Ma se queste saranno disponibili solo a partire dal prossimo anno, si tratta di capire come far fronte alle emergenze finanziarie dell’autunno, che altrimenti si preannuncia parecchio caldo. Per questa ragione (anche, non solo) non possiamo rinunciare ai soldi del Mes: che sono consistenti, a costo zero e disponibili immediatamente.

Infine, c’è un problema che nessuno osa affrontare, tanto fa paura: il debito pubblico. Che quest’anno salirà ad oltre il 150% del PIL. Fino a quando la Bce continuerà ad acquistare a man bassa e senza la regola della Capital Key i titoli emessi dal Tesoro italiano, questo non rappresenta un problema. Ma appena l’intervento espansivo cesserà dovremo affrontare un rapporto debito/Pil da mettere i brividi.

Anche per questo serve un confronto con l’Unione Europea: per assicurare che la maggior parte delle risorse che verranno rese disponibili sul Next Generation EU provengano dalle risorse proprie, piuttosto che dai contributi nazionali. Insomma, che si finanzi da sé, non con risorse che andrebbero a peggiorare i già critici conti pubblici italiani.

Vedremo al prossimo appuntamento di luglio se l’Europa sarà in grado di fornire quella risposta solidale che diventa ogni giorno più necessaria. Come Italia, non abbiamo alternative: e il prezzo della solidarietà europea è la responsabilità italiana nella gestione delle risorse.

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 Europa il rischio di un compromesso inaccettabile

[EPA-EFE ROBERT GHEMENT]

I compromessi, si sa, per definizione scontentano tutti. Ma permettono anche a ciascuno di tornare a casa propria ed affermare che ha ottenuto, seppur parzialmente, qualcosa di significativo. Il Consiglio Europeo (che si apre questa settimana), chiamato a decidere sulle sorti dell’Europa nel prossimo futuro, pronunciandosi all’unanimità (quindi necessariamente sulla base di compromessi) sia sul Recovery Plan per l’uscita dall’emergenza sia sul bilancio per i prossimi sette anni, sta portando avanti una partita pericolosa. Per noi cittadini europei, naturalmente, non per i governi che dovrebbero rappresentarli.

La partita è stata resa esplicita dal Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel: accettare la proposta della Commissione per un Recovery Plan da 750 miliardi ma allo stesso tempo lasciare il bilancio della UE per il periodo 2021-2027 all’1,07% del PIL, come indicato dall’accordo raggiunto nell’epoca pre-Covid.

Una notizia accettata con favore dalla maggior parte dei commentatori italiani, presumibilmente perché salvaguarda la nostra richiesta più urgente (allineata su questo punto a quella di Commissione e Parlamento): i 750 miliardi sul Recovery Plan.

Una notizia che dovrebbe invece essere accolta negativamente da tutta la società civile europea, se intende davvero essere espressione dei bisogni dei cittadini europei. E che dovrebbe essere rigettata dal Parlamento Europeo (aveva chiesto un bilancio al 1,3% del Pil), che almeno su questo ha l’ultima parola.

L’emergenza pandemica non dovrebbe far dimenticare che un bilancio collettivo all’1% del Pil non è sufficiente (né lo sarà in futuro) per finanziare beni collettivi “pubblici” europei, necessari perché l’Europa diventi un soggetto capace di governare, non subire, la competizione globale e di soddisfare le aspettative dei suoi cittadini.

Non si tratta più soltanto di dare un segnale politico di solidarietà europea, che nel contesto pandemico dovrebbe essere ormai scontato. Né si tratta solo di salvaguardare i livelli di spesa per programmi (come Erasmus+, Europa creativa, Citizens for Europe, etc) che hanno dato prova di fornire un aiuto cruciale alla creazione ed al consolidamento di un’identità europea, che fa ancora fatica ad emergere. Né si tratta solo di dare concreta attuazione al Green Deal della Commissione, altrimenti destinato a rimanere lettera morta (o moribonda, se parte del Recovery Plan verrà utilizzata per la transizione verde).

Si tratta invece di immaginare e mettere in atto un grande piano di investimenti pubblici e privati, in grado di mobilitare decine di migliaia di miliardi di euro: 15-20 punti di Pil. Da finanziare con il ricorso ai mercati finanziari internazionali ed a nuove risorse proprie comuni. Con tutti gli strumenti già oggi a disposizione: bilancio pluriennale, Mes, Bei; anche inventandosene qualcuno nuovo. Proposte in tal senso non mancano: da quella di Alfonso Iozzo di usare proprio il Mes come leva per investimenti da 4.000 miliardi a favore di infrastrutture sociali, culturali, di trasporto, etc a vantaggio dei sistemi locali più dinamici; a quella di Corrado Passera di estendere il bilancio a 5.000 miliardi, finanziandolo con emissioni di debito collettivo garantite da risorse proprie, per realizzare infrastrutture di rilevanza europea.

Questi sono i numeri; questa è la scala di interventi oggi necessari. E la maggior parte di essi passa per un bilancio collettivo. Il resto sono le consuete discussioni fittizie fra “frugali” e “solidali”, buone solo per alimentare il dibattito sui media, non per risolvere i problemi dell’economia europea: retoriche che ormai non dovrebbero incantare più nessuno.

La partita è altra, molto più ampia; e certo delicata. Dipende anche dalla capacità di ciascun sistema politico nazionale di “vendere” narrazioni ad-hoc che non risultino indigeste ai propri elettori (quindi, a titolo di esempio, far digerire la solidarietà europea ai paesi nordici, così come far digerire agl’italiani una qualche forma di condizionalità collettiva sulle risorse europee). E questo richiede tempo; il che lascia immaginare che non basterà la riunione del Consiglio di questa settimana per risolvere i nodi sul tavolo.

Ma, per quanto ci piacerebbe che l’Europa desse un segno concreto, immediato e solidale di risposta alla crisi, i compromessi (e i loro tempi di preparazione e negoziazione) sono inevitabili in un contesto decisionale all’unanimità. Un elemento che dovrebbe suggerire come il primo passo, decisivo, perché l’Europa diventi adulta sia cancellare l’unanimità da ogni decisione collettiva.

L’emergenza pandemica (peraltro ancora in corso) non sarà servita a nulla se non cambierà in profondità il modo con cui la Ue concepisce lo stare insieme, con cui dà corpo ed anima ad una – finora in gran parte virtuale – identità europea. E proprio quando decide sulle risorse, su come raccoglierle e come spenderle, un insieme di individui diventa una comunità.


 

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